AnyTime #1

Amo la storia.
E la amo ancora di più quando viene ad intrecciarsi con la scienza forense.

Maggio 1903: Will West viene schedato secondo il metodo Bertillon, una volta giunto alla prigione di Laevenworth, Kansas. Gli viene assegnato il numero 3426.
Tutto sembra filare liscio.
Ci si accorge ben presto, però, che William West è già schedato all’interno dello stesso penitenziario.
Il numero è diverso sì, 2626, ma il nome ed il Bertillonage coincidono perfettamente.

E’ l’inizio del declino per il sistema Bertillon.
Ma di cosa stiamo parlando?

Di un sistema di riconoscimento biometrico adottato in tutta Europa e Stati Uniti fin dall’inizio del Novecento. Consisteva nella misurazione precisa, precisissima, di più parti del corpo: cranio, lunghezza di arti, dita, piedi, naso, conformazione delle orecchie e una foto segnaletica, frontale e laterale, dell’individuo a mezzo busto.
Tale sistema, messo a punto dal criminologo francese Alphonse Bertillon, poggia sulle nozioni scientifiche secondo le quali le ossa non mutano dopo il ventunesimo anno d’età ed ogni scheletro è diverso da altri.

La vicenda Will e William West iniziò a porre forti dubbi sull’affidabilità del sistema.
Le misurazioni fisiche risultavano profondamente precise solo se effettuate da chi il sistema l’aveva inventato. Anche eventuali corsi di formazione parevano inutili.

Il caso del 1903, quindi, fu uno dei primi in cui venne applicata la dattilografia, ovvero lo studio delle linee sulla cute.
I due West, pur essendo sicuramente gemelli omozigoti (lo sapevano e mentivano per coprirsi o nonsapevano l’uno dell’esistenza dell’altro, questo non è chiaro dai resoconti dell’epoca), avevano impronte completamente diverse.

Iniziava l’era delle impronte digitali come sistema di identificazione.

Sembra che già i Babilonesi le conoscessero, come si può apprendere dall’osservazione di tavolette recanti transizioni commerciali risalenti al 500 a.C. L’impronta era impressa come firma o garanzia del documento (chiamali antichi!)

Lo studio scientifico delle intricate linee sui nostri polpastrelli, però, iniziò solo alla fine del XVII secolo d.C.
Parecchi scienziati diedero vita a studi e trattati in materia, e tra essi si distinse il medico scozzese Henry Faulds.
Durante una missione in Giappone negli anni Settanta del 1800, notò che i motivi a cresta di antiche impronte lasciate su ceramiche di 2000 anni prima erano ancora visibili.
Da lì l’idea di inchiostrare le dita di vari suoi colleghi dell’ospedale in cui lavorava per giungere alla conclusione che ogni impronta era unica, mai uguale ad un’altra.

Francis Galton, antropologo ed esploratore britannico, proprio negli ultimi anni del XIX secolo, dopo vari calcoli sulle probabilità che due persone possiedano impronte uguali e indagini sulla loro ereditarietà, ideò finalmente un primo sistema per la loro catalogazione ampliato ed applicato in casi giudiziari dal poliziotto inglese Edward Richard Henry (sotto il suo mandato iniziò anche l’impiego di cani in polizia).

Nonostante tutte queste belle parole sull’unicità di ogni impronta, ad oggi tale nozione non è stata ancora dimostrata, scientificamente parlando. Si prende come dato di fatto. E’ una certezza solamente empirica.
E non è questo l’unico problema ai quali è andato incontro l’impiego di impronte digitali da parte del settore giudiziario.
Spesso i criteri per una loro catalogazione variano fortemente tra zone geografiche ed, inoltre, i sistemi per una loro falsificazione sono sempre più sofisticati, riuscendo ad ottenere ottimi risultati.

Le nostra dita, quindi, sono state rimpiazzate dal nostro DNA.

Il 10 Settembre 1984, il genetista Alec Jeffreys dell’Università di Leicester, Inghilterra, osservando similitudini e differenze tra il DNA di vari membri di una famiglia, diede vita al fingerprinting genetico, destinato a rivoluzionare la scienza forense.
Tale metodo venne sfruttato per la prima volta all’interno di un’aula di tribunale per il caso delle due adolescenti Lynda Mann e Dawn Ashworth, uccise negli anni ‘80 nel Leicestershire.
Grazie al fingerprinting non solo si identificò il vero colpevole, ma si riuscì a scagionare anche l’innocente inizialmente sospettato per gli omicidi.

Ed è proprio in tema di innocenza che l’analisi del DNA è tutt’oggi una prova decisiva.
Su di essa pone le basi l’attività dell’ Innocence Project, organizzazione legale senza fini di lucro con sede principale a New York, fortemente impegnata nel fornire assistenza a chi è detenuto ingiustamente e nel riformare il sistema giudiziario.

E allora visitatelo il sito dell’Innocence Project al link sottostante
https://www.innocenceproject.org/
e godetevi questo RETROREPORT del New York Times su come il DNA abbia cambiato il mondo forense.

Quando riparleremo di storia, chiedete?
AnyTime!