
“Blue Monday, how I hate Blue Monday
Got to work like a slave all day”
Fats Domino, Blue Monday
1) Mark Lanegan, Straight songs of Sorrow
#darkvoice #ballatedautore #carisma #interpretazione

Quando una voce profonda ed ammaliante come quella di Mark Lanegan si presta ad interpretare brani sapientemente costruiti ed arrangiati, il risultato non può che essere piacevole.
Ma ciò può non essere sufficiente, se non si onora l’altare della melodia. E, in Straight songs of Sorrow, la vena melodica riesce a colorare le ballate dark che connotano lo stile di Lanegan da quando (ormai da più di 20 anni) ha intrapreso la carriera solista dopo il passato grunge con gli Screeming Trees.
Un po’ Nick Cave, un po’ Tom Waits, un po’ Leonard Cohen. Sono paragoni che potrebbero far impallidire molti artisti, ma non questo Mark Lanegan, quanto mai vicino all’apice del proprio disegno musicale. Nei solchi della meravigliosa The Skeleton Key, Mark chiede di seguirlo giù in basso, “trough the underground”, nella profondità del proprio intimo, lacerato dalla cruda tristezza che anima l’intero album (a partire dallo stesso titolo). Lo so, non è la più entusiasmante delle proposte, ma se nell’underground delle nostre anime riecheggia questa musica, mi ci butto a capofitto.
2) Tom Bright, Self Service checkout
#folksinger #folkpop #Inghilterra #British style #fumoefoschia

Self service check-out è il primo disco di questo giovane folksinger, emerso dai fumi dell’Inghilterra operaia per cantare un educato, ma non banale, repertorio di brani tipicamente cantautorali.
Del resto, la Terra d’Albione, da sempre ricca di cantori che agitano la propria voce su più o meno delicate trame di chitarra, ultimamente è protagonista di una nuova invasion, più borghese di quella celeberrima degli anni Sessanta, ma non priva di spunti interessanti. Gerry Cinnamon e Jake Bugg rappresentano i più noti (almeno in madrepatria) esponenti della corrente dei folksinger britannici, nella quale si introduce in punta di piedi Tom Bright.
Voce decisamente gradevole, accento britannico a la Peaky Blinder, Tom Bright ricama veloci ed incisive melodie che non faticano ad entrare nella mente dell’ascoltatore. L’arrangiamento è scarno ed essenziale, nel pieno rispetto della tradizione folk, ma con evidenti richiami ad un pop di gusto, ma non di maniera. Le canzoni di Bright raccontano la quotidianità della sua generazione, per la quale arriva persino a formulare una inquietante richiesta di benedizione (Bless our generation), ammettendo allo stesso tempo che, in fondo, quella generazione non è che gli piaccia più di tanto.
Non è da tutti, poi, essere credibile cantando di aver appena mangiato un kebab la sera prima (Last Night’s Kebab), ma anche questo racconta della sua, anzi, della nostra generazione. Confido che nel prossimo album la stessa attenzione sia dedicata al sushi, altra icona della nostra epoca.
Se con le mie parole non vi ho convinto ad ascoltare Tom Bright, fatelo for order of the Peaky Blinders!
1) Yves Tumor, Heaven to a tortured mind
#newblackmusic #musicastraniante #personaggioistrionico

Il solo ascoltare i suoi dischi non rende giustizia a Yves Tumor. Il suo talento, infatti, si muove già sul piano dell’immagine. Se in Italia celebriamo gli scimmiottamenti di Achille Lauro, uno come Yves Tumor sarebbe eletto icona del secolo. Di certo, vedrei con una certa difficoltà la comparsa di un personaggio con una tale carica istrionica e irriverente nei salotti buoni della televisione del Bel Paese. “Ma questa è un’altra storia”.
In ogni caso, il ragazzo vale, eccome. Heaven to a tortured mind contiene musica non facile da definire, che affianca l’irruenza del rock all’impostazione più tipicamente black, strizzando l’occhio ad un hip-hop raffinato ed alla forma più evoluta di elettronica. Il brano d’esordio, Gospel for a new century, con il suo magnetico riff iniziale, si candida già ad essere una delle cose migliori di questo 2020. Un bagliore di luce, una scarica di estro stampata su un pentagramma. Lo scorrere dei brani invoglia a danzare, innesca un vortice di adrenalina, intervallato da attimi di morbidezza, come è proprio di ogni grande album.
Non può non notarsi, infine, come Yves Tumor possieda un notevole gusto nella scelta dei titoli. Heaven to a tortured mind, già per il titolo, è un’ode alla capacità espressiva.
ULTRA PETITA
Circa un mese fa ci lasciava Little Richard.
Di “little” aveva ben poco (fuor di malizia, sia chiaro).
I quasi 70 anni di carriera ne hanno costruito il mito. Amava definirsi la Regina del rock’n’roll, alludendo alla sua dichiarata omosessualità. Questa definizione mi ha sempre fatto molto sorridere. E sono convinto che l’autoironia che sapeva mostrare sia, oltre alla musica, il suo lascito più rilevante. Mi piacerebbe che questo gli venisse riconosciuto. Perché se ora viene unanimemente (e giustamente) descritto come lo stravagante ribelle del rock’n’roll, non dovremmo dimenticarci che quella stravaganza è stata la sua arma di difesa verso un mondo in cui essere neri ed omosessuali non era ancora un titolo preferenziale per condurre programmi su Real Time o essere ospiti dei talk show di Del Debbio e Giordano. E poi aveva capito una cosa. Se riesci a essere autoironico, previeni la volgare ironia altrui.
Spero che in Paradiso ci siano un pianoforte e un paio di stivali di pelle di serpente. Altrimenti, credo che nemmeno Amazon consegni lassù.
A-bop-bop-a-loom-op a-lop-bop-boom!!