bLUe MONDAY #3

Blue Monday, how I hate Blue Monday
Got to work like a slave all day

Fats Domino, Blue Monday

1) Bob Dylan, Rough and rowdy ways

#ballatedautore #carisma #menestrello #bluesipnotico

Sono un dylaniano dell’ultima generazione.

Ho iniziato a conoscerlo e ad apprezzarlo negli anni del Liceo, quando l’ascolto delle sue ballate calzava perfettamente con lo stereotipo dello studente del Classico.

Come in tutte le cose che mi riguardano, tuttavia, non mi rendevo conto che ascoltare Dylan negli anni 2010 non ti facesse più sembrare il rivoluzionario pacifista degli anni ’60 né il colto intellettuale degli anni ’70, ma semplicemente un radical chic animato da istanze fuori dal tempo.
Eppure, tra tutte le cose fuori moda che facevo (perché coltivate decine di anni dopo la diffusione del trend), l’unica che sentivo continuamente in linea con i nostri tempi, in un limbo di costante tendenza, era ascoltare Bob Dylan.

Negli ultimi anni, che Bob mi perdoni, ho dubitato di questa affermazione.
Lo vedevo gozzovigliare tra palazzetti e locali non degni del suo status, trascinandosi svogliatamente in distorte interpretazione dei suoi classici.
Dopo l’incerto Tempest del 2012 (ultimo disco di inediti), e gli stilosi tentativi da crooner degli anni successivi, iniziavo a pensare che la musica di Dylan fosse divenuta finalmente fuori moda (non che la cosa mi dispiacesse, anzi).

Ma qui arriva il colpo di scena.
Il tocco da maestro che emerge dalle tenebre di questo 2020 per offrirci una delle ultime prove della classe del signor Zimmerman.
È pur vero che la lunghissima Murder most foul ha ad oggetto l’assassinio di John Kennedy, non proprio un tema freschissimo, ma mi è bastato ascoltare la voce di Dylan tornata finalmente espressiva, le sue melodie ipnotiche e malinconiche, per sentirmi nuovamente in linea con il suo universo musicale.

Rough and rowdy ways è un disco tipicamente dylaniano, di blues sporchi ma empatici (False Prophet, Goodbye Jimmy Reed), di ballate che ti sembrano essere sempre imperfette, ma che ti coinvolgono e ammaliano ascolto dopo ascolto (I contain moltitudes su tutte).
Non c’è nulla di nuovo, ma tutto è al posto giusto.

2)Freedom Fry, Songs from the West Coast

#California #summersounds #spiagge #indiehippie

Raramente mi sento di invitare qualcuno a non soffermarsi sulla copertina di un disco.
La copertina, pur memori del saggio detto “Don’t judge an album by its cover”, segna inevitabilmente il primo impatto, non solo fisico, ma anche e soprattutto emotivo, con l’album che si sta per ascoltare.

In questo caso, la copertina (che ritrae i due coniugi che compongono il duo Freedom Fry) sembra l’immagine di un profilo social condiviso tra innamorati.
Proprio per questo, suggerisco di distogliere quanto prima lo sguardo dalla copertina del disco e schiacciare il tasto play fissando qualsiasi altro punto della stanza.

L’atmosfera felliniana dell’iniziale Pretty Bird, da carovana di 8 e ½, lascia spazio alle atmosfere rilassate e distese che rimandano all’immaginario delle spiagge californiane e, con esse, alle istanze libertarie e pacifiste tipiche degli anni ’60 (So free, Not with a bullet).
Le voci che si intersecano, come nella migliore tradizione della West Coast (Beach Boys, CSNY), ed i suoni sono dilatati, in linea con la nuova ondata californiana (Fleet Foxes, Jonathan Wilson).

Il risultato è un disco che, ancor più se si considera il periodo, alimenta il fuoco della nostalgia e dei sogni infranti.
Un disco hippie in un contesto di restrizione delle libertà personali, più o meno giustificate dall’emergenza sanitaria.
Probabilmente, proprio questo contrasto rende il disco più affascinante di quanto in realtà non sia.
Le idee musicali sono piacevoli, le melodie non mancano, ma il senso di libertà e di birre sulla spiaggia che regala questo disco dei Freedom Fry basta per concedergli un ascolto.

3) Tomer Yeshayahu, Manuella

#isrealicsound #worldmusic #meltingpo

Preso da una ventata di fascinazione esotica, favorita dai mesi di clausura forzata per la nota epidemia di cui quasi dimentico il nome, ho scoperto un giovane artista israeliano, Tomer Yeshayahu, ed il suo ultimo disco, Manuella.

Manuella è un melting pot di brani dal sapore antico e nostalgico, di lingue diverse e di nomi di persona.
I titoli di ogni singolo brano del disco, infatti, sono dedicati a nomi di persona, tra i quali anche un nome decisamente celebre e familiare alle nostre latitudini, Don Peppino.

Partito (mentalmente) con la voglia di esplorare musicalmente il mondo, con Manuella ho trovato ciò che cercavo.
Le sonorità mediorientali echeggiano tra le tracce dell’album, senza tuttavia imprimervi un segno eccessivo o pesante, e si alternano ad arrangiamenti e stili vocali e strumentali decisamente variegati.
Per ascoltare, e comprendere a fondo, i brani dell’album servirebbero diversi vocabolari: molti brani infatti sono cantati in lingua italiana, spagnola, portoghese o francese.
Per chi, poi, non è avvezzo di lingue straniere, ed in particolare del Medio Oriente, risulta difficile trovare un’unica anima all’interno del disco.
Ma, forse, proprio questo aiuta a lasciarsi andare ai suoni di Manuella, a concedersi dolci evasioni dalla quotidianità mediterranea, per esplorare mondi più o meno sconosciuti.
Insomma, Manuella è una cura per chi anela ad imbarcarsi sul primo volo e soggiornare in luoghi da Mille e una notte.