Cat-calling fantastici e dove trovarli: il sessismo negli spazi pubblici.

Qualche settimana fa è tornato alla ribalta delle news e delle pagine femministe (e non solo) il tema del cat-calling, grazie a un video virale di rant di un uomo (abbastanza famoso, dicono) che si lamentava proprio dell’esagerazione nelle reazioni ai commenti fatti per strada alle donne.

L’uomo del video (che non nomineremo ma immagineremo, in simil stile zerocalcariano, come un Jabba de Hutt con la barba e gli auricolari bianchi) si lamenta di quanto detto da Aurora Ramazzotti pubblicamente, ovvero del fatto che ormai non si può più gridare per strada alle sconosciute per strada, né tantomeno fischiare loro, che subito qualcuna risponde o gli dà del maleducato, o addirittura parla di molestie.

Il video è diventato virale, sì, ma ancora più diffusa è stata la reazione collettiva da più parti alla posizione presa dall’uomo. Una posizione non più sostenibile e foriera simbolica di un sessismo che, presentissimo nella nostra società, non può esimersi di palesarsi anche negli spazi pubblici: le strade, i mezzi di trasporto, i parchi, i vari ed eventuali luoghi di aggregazione pubblica.

Il cat-calling – intraducibile con un termine solo in italiano, ma possiamo far riferimento ai suoni smorfiosetti che si fanno per chiamare i gatti – è uno dei tanti modi in cui si concretizza lo street harassment, ovvero le molestie in strada. Quello delle molestie in strada è un tema sempre caldo nei discorsi femministi e non solo: si tratta di una forma di molestia che prende piede negli spazi pubblici e viene rivolta principalmente a donne, popolazione LGBTQI+ e persone con corpi e fisicità non conformi agli standard sociali (tra cui possono rientrare le persone disabili e le persone grasse, ad esempio, ma anche le persone migranti).

Il cat-calling è, nello specifico, più rivolto alle donne, ma non sempre.

 

La dinamica delle molestie in strada riprende quella del sessismo “solito”: c’è una parte di popolazione che sente di dover commentare, spaventare, invadere lo spazio e la vita altrui, in virtù di una posizione di privilegio e potere “riconosciuta” socialmente.
Potere e privilegio di una parte di popolazione che crea la posizione del “Io posso, e tu no”: io posso insultarti per strada, io posso seguirti in maniera insistente per chiedere il tuo numero, io posso seguirti per spaventarti, io posso toccarti sul bus senza il tuo consenso, io posso prenderti in giro, io posso darti del tu a prescindere dall’età, io posso toccarti i capelli senza il tuo consenso, io posso fissarti anche se ti senti a disagio, io posso chiederti perché sei in carrozzina anche se non ti conosco, io posso dirti di non mangiare un gelato ma un’insalata, io posso disprezzare o fare allusioni sessuali a una coppia omosessuale per strada, e così via. Io posso perché mi hanno insegnato che se faccio così non mi succede nulla, anzi: è anche così che so che sono più forte.


Chi usa queste parole e questi gesti è di solito una persona che socialmente ha più potere pubblico e sociale rispetto alla persona a cui li rivolge. Vien da sé che questo fenomeno non sia una nuova moda, ma chiaramente esiste da quando esiste il sessismo.

Quello del cat-calling e delle molestie in strada potrebbe sembrare un fenomeno meno grave degli stupri e dei femminicidi, ma è la falsa categorizzazione di gravità che sta a monte che influenza la percezione del fenomeno: più che osservare l’esito di una situazione (un fischio, una palpata a una sconosciuta, o un commento omofobico per strada) bisognerebbe osservare la radice che accomuna questi gesti e queste parole: ed è, semplicemente, il sessismo, con tutti i correlati discriminatori che spesso l’accompagnano (omofobia, abilismo, grassofobia, lesbofobia, transfobia, etc).


La grossa differenza con i complimenti (perché nelle argomentazioni basic di chi dice che è solo “un modo di flirtare” torna spesso il termine “complimenti”) è che il cat-calling e le molestie in strada nel complesso nascono in contesti non consensuali, quindi non all’interno di relazioni e di dinamiche di corteggiamento, ma dentro interazioni non volute da entrambe le parti e spesso nemmeno ricercate o caldeggiate.

In altre parole: se due persone camminano nello stesso marciapiede e non si conoscono, nessuna delle due può essere obbligata a interagire con l’altra, o reagire alla presenza o percezione altrui. Alla parte di popolazione a cui socialmente il sessismo dà il coltello dalla parte del manico (e la metafora armata è sicuramente non casuale) spesso viene fatto credere che tutto ciò che ruota intorno alla propria percezione sia fatto apposta per i propri occhi, i propri gusti, i propri commenti, le proprie opinioni. E viene fatto credere che fare cat-calling sia qualcosa di accettabile, da fare e da vivere.
Dall’altra parte ci sono invece persone che, in parole spicciole, si fanno i fatti loro; muovendosi negli spazi pubblici in cui hanno il diritto di stare, e di vivere la propria vita senza essere invase nei propri spazi fisici, mentali, psicologici, emotivi. E che non sono felici di essere fischiate o di ricevere commenti non richiesti da sconosciuti per strada.


Il fenomeno dello street harassment e del cat-calling è talmente diffuso e pervasivo che la maggior parte delle donne lo vive fin dai primi anni dell’adolescenza (andate a vedere la ricerca della Cornell University insieme all’organizzazione internazionale Hollaback: ci sono anche i dati italiani), e tantissime persone attivano presto una serie di gesti di “auto protezione” da ciò che può potenzialmente succedere: si impara presto a evitare di tornare sole la notte, a evitare alcune vie o zone, a evitare di prendere per mano il/la propri* partner, a “coprirsi” e cercare di annullare qualsivoglia segnale di “sfida” o di interazione – auricolari, cappuccio sulla testa, sguardo basso, sobrietà…).
Sotto sotto però, si è consapevoli fin da subito anche di questo: qualsiasi tentativo di proteggersi potrebbe non bastare. Nell’immaginario di molte donne, una semplice uscita notturna in solitaria può attivare tutta una serie di scenari che provocano ansia, allarme, preoccupazione per la propria incolumità fisica; e non sono esagerazioni, ma immagini e paure plausibili per le donne e le persone LGBTQI+ e le altre persone che il sessismo e i suoi correlati discriminatori: parlano i dati.

Le molestie, il cat-calling e il sessismo in generale non sono qualcosa che viene provocato da chi lo vive, dal modo di muoversi, vestirsi e stare al mondo, o dalla fisicità: il sessismo sta nella testa di chi lo agisce e non dipende dalle apparenze, benché questa sia l’argomentazione che ancora viene malamente, scorrettamente e violentemente proposta.


Dalla ricerca della Cornell University (ma anche dalle riflessioni personali di ogni donna, persona LGBTQI+, persona disabile o grassa a cui chiedete) emerge che il fenomeno delle molestie in strada sia talmente pervasivo da influenzare comportamenti e stati d’animo. Si vive in una dimensione di preoccupazione, impotenza e anche paura negli spazi pubblici, e in un potenziale stato di allarme continuato che va a inficiare l’equilibrio psico-fisico, l’atteggiamento negli spazi pubblici, la situazione economica (pensiamo all’impatto sul portafoglio e sul lavoro del dover evitare delle strade e fare giri più lunghi per arrivare a lavoro, oppure prendere il taxi per evitare di tornare a casa a piedi, o evitare di mangiare per strada, etc) e la percezione della propria libertà.

Senza parlare del senso di umiliazione, frustrazione e di rabbia che provoca il subire l’invadenza fisica o psicologica da parte di sconosciuti per strada.

 

Da qualche anno in alcuni ambienti di attivismo e di salute mentale si parla degli effetti del sessismo quotidiano e delle micro-aggressioni (ovvero di tutti quei gesti nascosti che non saltano alla cronaca per gravità ma che contribuiscono a mantenere una situazione di disparità e violenza verso donne e minoranze) sulla salute mentale: ottimo quindi parlarne per prevenire, lavorando a livello di educazione e sensibilizzazione collettiva.
Ma una grossa parte di lavoro e di proposte si muove nel combattere attivamente e direttamente queste situazioni: si può reagire, soprattutto stando insieme e parlandone spesso. E’ questa l’idea che ha mosso la fondazione di Hollaback.org (che ha avuto per qualche anno anche una sede in Italia) e che muove l’attuale lavoro di Catcalls of Italy, porzione nazionale di un movimento globale contro le molestie in strada. Tra le iniziative proposte il “chalkback”, evento itinerante in cui attiviste e persone alleate usano i gessetti sulle strade e i marciapiedi, scrivendo le parole e i gesti sessisti ricevuti proprio in quei punti della città.
Proprio in questa settimana è attiva l’International Anti-Street Harassment Week, in cui seguendo e usando l’hashtag #WeStandUp si possono scoprire, utilizzare e condividere buone pratiche di resistenza e reazione al fenomeno delle molestie in strada.
Insomma, per quanto il fenomeno sia pervasivo e davvero invalidante, parliamone il più possibile e attiviamoci, anche quando testimoniamo una situazione: non ci saranno Jabba the Hutt e cat-calling che tengano.

E tu? Cosa pensi del cat-calling? Hai mai vissuto una situazione di molestia in un luogo pubblico? Se ti va, raccontaci la tua esperienza e opinione nei commenti o sui social.
E se ti è piaciuto l’articolo, condividilo con qualcun* a cui può interessare!

Siti suggeriti:

  1. Sito di Hollaback.org: https://www.ihollaback.org/
  2. Profilo Instagram di CatcallsOfTurin: https://www.instagram.com/catcallsofturin/?hl=it
  3. Will Media: https://www.facebook.com/willmediaITA/photos/a.153415176211586/184773743075729/?type=3
  4. Per informazioni sulla settimana internazionale contro le molestie in strada: International Anti-Street Harassment Week: https://www.ihollaback.org/anti-street-harassment-week/

ALESSIA GRAMAI

Writer
Psicologa, (quasi) sessuologa, sarda, femminista.
Polemica, a volte; troppo concentrata su cosa succede nel mondo, spesso; piena di dubbi, sempre.