Chiamami col mio nome: l’importanza del dare soggettività alle persone (nelle notizie e nelle relazioni sociali)

La scorsa settimana sono stati annunciati i Premi Nobel 2020.
Quella dei Nobel è una notizia annuale importantissima a livello mondiale: grazie a questi premi, anche i profani delle scienze coinvolte nelle premiazioni hanno l’occasione di scoprire quali sono state nell’ultimo anno le scoperte scientifiche o le rivelazioni umanistiche più eccezionali.
È occasione per sapere quali risultati stiamo raggiungendo in termini di sviluppo scientifico, tecnologico, medico, letterario e umano. Quest’anno la diffusione della notizia dei Nobel Prizes in Italia è servita anche per sottolineare il grosso difetto giornalistico (e quindi anche culturale e sociale) nei confronti delle donne.
Il Nobel per la chimica è andato a Emanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna per lo sviluppo dell’editing genetico del DNA; quello per la letteratura alla poetessa americana Louise Glück; e, seppur condiviso, quello per la fisica è andato anche a Andrea Ghez, insieme al suo collega, per la scoperta di un oggetto compatto supermassiccio al centro della Via Lattea.
I premi non nominati sono andati a uomini, e chi è interessato può trovarli sui giornali in questi giorni.


Ciò che è particolare è che alcune testate italiane hanno titolato i propri articoli (e col titolo si dà una prima visione sul contenuto e su ciò che è importante sottolineare) senza nominare le vincitrici del Nobel ma indicando “due donne”. Alcuni esempi:

L’analisi di Michela Murgia su questi titoli è davvero illuminante (la trovate per intero nelle sue storie Instagram in evidenza). La notizia vera è il premio Nobel dato per una scoperta importante, o il fatto che ci siano “due donne”? Ma poi, chi sono queste “due donne”?
Sono donne, e a quanto pare tanto basta per far notizia.
Chiaro, negli articoli poi i loro nomi e le loro professioni ci sono; ma spesso vengono aggiunte anche informazioni e dettagli “da donne” (se hanno figli, se sono sposate, quali hobby hanno…).
Tutto gira intorno alla traccia identitaria che sembra significare di più
: l’essere donna.

Dire che “una donna” ha fatto qualcosa, significa che la sua persona è primariamente indicata dal suo genere, il resto viene indicato dopo (sempre che venga indicato…).
Quello di parlare di notizie che riguardano delle donne dando priorità al loro essere donne più che protagoniste con nomi e cognomi e identità ben definite da altro, non è un vizio del giornalismo italiano: su wikipedia.fr alcune attiviste hanno creato una pagina satirica per capire chi è “una donna” (“une femme“), e quante cose abbia fatto nella sua pienissima vita – la trovate qui.

Cosa significa parlare delle donne in quanto donne?
Significa allontanarsi parecchio dalla realtà.
Nel momento in cui una persona fa notizia – per merito, per colpe, per qualsiasi motivo faccia notizia- e ci si focalizza primariamente su una sua caratteristica, si riduce la complessità di quella persona e al contempo si invita sottilmente chi legge ad attivare dei bias cognitivi su quanto legge.
Cosa sono i bias cognitivi?
Sono i processi mentali automatici che ci portano a pensare secondo categorizzazioni, stereotipi e pregiudizi e a interpretare ciò che stiamo vivendo secondo queste categorie.
È una tendenza istintiva che di per sé non è un male: il nostro cervello tende a risparmiare sforzi, quindi spesso riassume e categorizza per funzionare più velocemente – ma quasi mai il risultato porta una valutazione corretta o completa della situazione che stiamo vivendo. Nel caso dei bias cognitivi legati al genere, possiamo facilmente trovare dei riferimenti ai pregiudizi che socialmente sono legati ai generi (come anche alle altre categorie identitarie significative per la società in cui viviamo).

Gli uomini sono, le donne sono; gli uomini fanno, le donne fanno…
Si aprono scenari già precostituiti a cui attribuiamo valore di verità. Ma è davvero realistico ridurre la complessità delle persone ad attribuzioni di caratteristiche che non sono oggettive e che non rendono la realtà di ciò di cui si sta parlando?

Davvero è utile immettere una persona specifica in una categoria sociale collettiva* e attribuire in automatico quello che pensiamo certo e vero per quella categoria?
Nel caso della notizia del Nobel i titoli (come quelli dell’immagine sopra), sembrano sottolineare la precedenza della categoria sociale “donne” sulla notizia vera: il Nobel dato per una eccezionale scoperta sul DNA.

Attenzione però a non confondere i titoli che invece hanno sottolineato come faccia notizia anche che solitamente un premio vinto da scienziati sia stato vinto da due scienziate (che poi, scritto così, non vi sembra la stessa cosa?), come succede qui:

Che si tratti di una notizia o di un commento tra amici, che si tratti di un discorso ufficiale o di un approccio a una persona che non conosciamo, poter dare nome e cognome significa vedere una persona nella sua unicità. Siamo l’incrocio di alcune caratteristiche legate a una categoria sociale con alcune specificità che vanno oltre qualsiasi tipo di categoria – e che non possono e non devono essere ridotte a ciò che dicono i bias cognitivi.
Per alcune persone, socialmente, è preminente parlare della categoria sociale a cui la attribuiamo. Nella maggior parte dei casi questa preminenza cristallizza le nostre concezioni e valutazioni e diventa discriminatoria.

Stare attenti e attente a come concepiamo una persona e quali bias cognitivi partono in automatico quando la prendiamo in considerazione può essere un buon momento di consapevolezza di quanto la società influenza e plasma le nostre interazioni e le relazioni con gli altri. Può aiutare anche a smantellare alcuni stereotipi diffusi che vivono nella nostra testa e in quella di chi ci sta intorno.

*per categoria sociale si intende qui un concetto diffuso in una data società su una parte di persone che le appartengono: può essere una categoria legata ad aspetti identitari, demografici (p.e: i giovani, gli anziani…), geografici (p.e: i piemontesi, i meridionali, i marocchini…), o ad aspetti salienti secondo un dato argomento (p.e: i no vax, i sovranisti, e altre categorie che si formano a seconda del tema in questione e del “posizionamento” delle persone).

ALESSIA GRAMAI

Writer
Psicologa, (quasi) sessuologa, sarda, femminista.
Polemica, a volte; troppo concentrata su cosa succede nel mondo, spesso; piena di dubbi, sempre.