“E sti c@zzi”: gli occhi sul corpo tra standard, Gucci e salute mentale

Qualche giorno fa un autore di CÒRE si chiedeva proprio quanto la variabile bellezza (come concetto generale ed esistenziale) influenzi il nostro stare nel mondo: qui parliamo quindi di quale sia l’influenza della bellezza corporea sul nostro vivere la società, il rapporto con noi stessi, e la nostra salute mentale.

In questo periodo girano diverse notizie legate all’estetica e alla bellezza corporea. Insieme alle foto della modella armena di Gucci, Armine Harutyunyan e alle polemiche (sapevate che solo in Italia c’è stato questo estremo polverone popolare di critiche sulla modella?), girano foto di palestre sovraffollate, e gira anche la notizia dei dati in aumento relativamente alla chirurgia estetica post-lockdown (di cui potete leggere qualche dato qui).
L’estetica del corpo, l’immagine corporea e gli standard sociali di bellezza sono un tema evergreen, che prende ogni volta la forma dell’attualità e del contesto socio-culturale che viviamo ma che esiste – in maniera così intensa e pervasiva – da un secolo o poco più.
Come influisce questo tema sulla salute mentale?  

  • Come funziona psicologicamente la percezione della bellezza umana?

Una piccolissima parte del nostro istinto percepisce come bello un viso o un corpo che ha determinate caratteristiche: molti autori hanno sottolineato che ci sono quasi dei calcoli silenziosi che il nostro cervello (nelle sue parti più arcaiche) fa quando si osserva qualcuno. Sono calcoli sulle “proporzioni” facciali e corporee: il rapporto e la distanza tra occhi e bocca, il rapporto tra spalle e vita, la distribuzione del colorito della pelle. A questi si aggiungono osservazioni legate al nostro interesse sessuale, e vengono quindi osservati (tutto questo in maniera inconsapevole e velocissima) i tratti sessuali facciali (la mascella, l’osso sopraccigliare, la larghezza della fronte). Tutto questo però, per noi Sapiens del terzo millennio, spiega davvero in misura minima le nostre scelte relazionali e sessuali e i nostri giudizi estetici: ci sono molte variabili psicologiche e altri “calcoli” istintivi sulla positività di una relazione con una persona (il cervello fa quasi delle proiezioni inconsce su quale sarà il nostro livello di soddisfazione psicologica nello stare con qualcuno, aggiungendo anche eventuali valutazioni su come sarebbe crescere la prole con lui/lei); e per i giudizi entra invece in gioco l’influenza culturale. L’enorme, pervasiva e sotterranea cultura che, in primis, ci ha dato l’attitudine al giudizio sui corpi, e, dall’altra, influenza enormemente i nostri gusti e le nostre scelte, tanto che la cultura diventa “natura”, si camuffa da istinto e pervade i nostri comportamenti (anche quelli inconsapevoli). Un esempio? I seni delle donne non sono degli stimoli sessuali istintivi ma lo sono diventati per via della cultura degli ultimi secoli

Mentre siete ancora scioccati per la notizia, aggiungo anche un altro aspetto: la pervasività dei media ha sostanzialmente cambiato le carte in tavola sul concetto di normalità e di esistenza dei corpi. Ci fa credere sostanzialmente che ciò che viene rappresentato mediaticamente esiste, è valido, ed è la situazione ottimale e che tutti e tutte dobbiamo sperare per noi stessi, mentre ciò che non viene rappresentato o non esiste o non ha valore. Sembrerà un assolutismo, ma proviamo ad applicarlo alla prossima pubblicità che vediamo o ai post di instagram in evidenza. 

Una società che tende al giudizio, e che ha creato degli standard (estetici e di “normalità”) e li ripropone nei suoi media, farà in modo che ognuno di noi interiorizzi questi standard e li utilizzi come punto di riferimento per accettare e rispettare noi stessi o qualcun altro, e al contempo darà spazio potenziale alla non accettazione e alla discriminazione, di noi stessi o di qualcun altro.

  • Come ci fanno stare gli standard sociali di bellezza?

La società siamo noi, la società è nella nostra testa. Se la società ci ricorda spesso quali sono gli standard, e ci dice cosa è bello e valido, noi penseremo in maniera continua, anche se spesso inconsapevole, a come essere belli e a come apparire, a come arrivare agli standard (ricordiamoci che i corpi proposti non sono comuni e rappresentano l’apparenza di circa il 5% della popolazione). Se non siamo come gli standard si crea un’insoddisfazione pervasiva e anche dolorosa che nel 1984 (nel 1984!) Rodin, Silberstein e Streigel-Moore hanno definito “Normative Discontent” e che ci rende continuamente autocritici. In alcuni casi il Normative Discontent e gli standard sociali influiscono sui Disturbi Alimentari, sulla Dismorfofobia (una psicopatologia per cui la percezione di come si appare è completamente non realistica e ai limiti del pensiero allucinatorio), su quella che è definita Bigorexia (per cui ci si percepisce come troppo magri ed esili e si attivano comportamenti compulsivi legati all’allenamento fisico e muscolare); può influenzare i Disturbi dell’Umore, come la depressione. Anche quando non si sviluppa una psicopatologia da diagnosi, l’insoddisfazione cronica per il nostro aspetto crea ansia, disagio, preoccupazioni eccessive, autocritica e negative self talk; influenza il nostro vivere esperienze con gli altri, influenza come noi trattiamo o giudichiamo gli altri (creando quindi delle discriminazioni spesso sottilissime che spesso sono anche istituzionalizzate: sapete che i bambini grassi hanno tendenzialmente voti più bassi degli altri?).

  • La fregatura del pensiero Body Positive

Da quando la società capitalistica ha messo corpi e facce nelle pubblicità (un prodotto è più attrattivo se affianco c’è qualcuno di attrattivo), in tanti si sono mossi per contrastare gli standard uniformati proposti e la creazione di un sistema di giudizio sui corpi. Il primo movimento “body positive”, con la finalità di protesta e di cancellazione della discriminazione sui corpi non-standard risale agli anni ’60, quando alcune persone grasse hanno organizzato dei sit-in di fronte a sedi politicamente rilevanti. L’obiettivo era quello di far vedere come nella nostra società non ci sono standard, ma persone, con tante sfumature di diversità e apparenza; e che quest’ultima non dev’essere in maniera assoluta un criterio di visibilità, di dignità e di valore: tutti i corpi esistono e devono avere pari diritti. La base dell’attivismo era l’accettazione e l’inclusione totale, ma nei decenni successivi (e soprattutto ultimamente) quella positività accettante è stata fagocitata dal capitalismo e dai media, trasformata nell’ennesimo accesso alla vendita di prodotti: le pubblicità non passano più il messaggio “Per diventare perfetto compra questo prodotto” ma “Sei perfetto così, ma compra questo prodotto per dimostrare a tutti che ti ami e ti vedi positivamente”. Molti hashtag su Instagram, Facebook e TikTok sono connessi all’imperativo  devi amarti (anche) così come sei. Gli standard classici di bellezza (magra, muscolosa, bianca) sono un po’ da parte, ma non sono spariti; semplicemente lo standard si è allargato fingendosi inclusivo e accettante. 

Il gioco sociale del capitalismo è molto facile da osservare: ora che una modella “outsider” rispetto ai soliti standard è sulle passerelle più in vista, sarà molto più facile avvicinare i corpi fuori dagli standard agli acquisti. “Guarda, anche lei mette gli abiti di Gucci e l’abbiamo definita bella, anche tu puoi comprare Gucci ora, sei più legittimata/o a farlo”.

  • E se non mi amo?

Ora che gli standard di bellezza sembrano cambiare, si pensa che i media possano aiutarci ad amarci per come siamo, perché è più probabile che corpi simili ai nostri vengano rappresentati dai media (più o meno…). Eppure il Normative Discontent è dietro l’angolo: se ci pensiamo, gli standard ci vengono proposti comunque, sono nei prodotti mediatici ma anche negli studi medici, nelle palestre, in piscina, nei commenti dei conoscenti, nelle chiacchiere dei bar, sono nella nostra testa… Inoltre, il nostro cervello non ci casca: se cerchiamo di convincerci compulsivamente di cose positive, siamo predisposti a cercare “l’errore del sistema” e, nei nostri pensieri ed emozioni, a controargomentare anche inconsapevolmente tutta questa positività, aumentando quindi la possibilità che, nonostante il dovere di amarci per come siamo, finiamo per essere ancora più consapevoli di quelli che percepiamo come difetti o inadeguatezze


Un modo di affrontare la questione e sovvertire il dovere al self-love a tutti i costi c’è: si chiama Body Neutrality ed è una concezione che si diffonde da qualche anno nel mondo degli e delle attiviste e (ahimè ancora in minor misura) nel mondo dei professionisti della salute mentale e fisica. Si tratta di un pensiero per cui il corpo può non essere giudicato nella sua apparenza, quanto più nella sua esistenza, nella sua funzionalità, e nell’essere quella parte di noi che ci permette di fare cose e vivere esperienze. Il corpo c’è, ha diritti, ha dignità perché esiste, al di là di come appare e di quanto può essere giudicato bello. Secondo la Body Neutrality non ha senso e non fa bene giudicare l’apparenza di un corpo, perché sarebbe molto più bello notare e apprezzare cosa quel corpo ci permette di fare e quali esperienze viviamo con quel corpo. Dal punto di vista psicologico questo cambiamento di prospettiva ci  permette di non arrovellarsi sul tema “apparenza” ma di vivere in maniera fluida le esperienze che facciamo. E se un pensiero non è invasivo e prepotente (come spesso sono quelli legati al corpo) lasciamo molto più spazio mentale per altre cose: passioni, crescita, nuove cose da imparare, nuove conoscenze fatte senza l’egida del “guarda che non vai bene, ti giudicheranno“.

Pensiamoci dentro un museo: quella mattina non ci siamo vestiti eleganti, abbiamo i capelli un po’ disordinati, e magari ci sentiamo appesantiti dalla cena prima (il che in una società grassofobica è spesso un pensiero foriero di giudizi decisamente negativi sul corpo e sul cibo): E STI C@ZZI! Il nostro corpo ci permette di goderci il museo, la visita in solitudine o in compagnia, l’audioguida o la lettura dell’opuscolo e ci permette di spostarci da una sezione a un’altra e di vedere tutto il museo.
Oppure pensiamoci a fare una passeggiata o dell’attività fisica all’aperto: siamo nel nostro parco preferito, abbiamo tempo libero, la musica alle orecchie, ma iniziamo a giudicare i runner intorno a noi, abbiamo le braccia nude e poco muscolose, oppure la carnagione pallida.. E il nostro momento al parco, invece di essere solo un bel momento al parco, diventa un coacervo di negative self talk, di imbarazzo, di disagio. E se invece pensassimo “E sti c@zzi!”? Probabilmente ci godiamo il momento per quello che è. 

 

Quello del Body Neutrality è un pensiero difficile, se non siamo abituati a questo cambio di prospettiva (e la società sicuramente non aiuta). Per iniziare però a creare una concezione senza giudizio del nostro corpo puoi provare questo gioco: 

  1. Elenca quelle parti del corpo che non giudicheresti mai per come appaiono: può essere un organo interno, qualcosa che non si vede a occhio nudo; tu pensaci e chiediti “A cosa mi serve? Cosa mi permette di fare questa parte del mio corpo?”
  2. Elenca le parti del corpo che di solito sono oggetto di autocritica. Non pensare a come appaiono ma pensa solo alla loro funzione, come contribuiscono quelle parti alla tua quotidianità e alle cose che ti piace fare; magari ti verranno anche in mente dei momenti molto belli dove quella parte del corpo era coinvolta ma non c’entrava nulla come appariva quella parte.

Si può stare senza giudizi sul proprio corpo e su quello degli altri?

Probabilmente sì, e certamente ci fa stare meglio con noi stessi. 

Bello, no?

Questo articolo ha natura esclusivamente informativa. Se vivi una situazione di disagio o di malessere legato all’immagine corporea o all’alimentazione rivolgiti sempre a un professionista della salute mentale.

ALESSIA GRAMAI

Writer
Psicologa, (quasi) sessuologa, sarda, femminista.
Polemica, a volte; troppo concentrata su cosa succede nel mondo, spesso; piena di dubbi, sempre.