
È morto Diego Armando Maradona.
Forse il più grande calciatore di tutti i tempi, sicuramente il più famoso, il più controverso, il più iconico.
La mia cultura sportiva non è particolarmente vasta, ma ho serie difficoltà a ricordare altri grandi atleti in grado di lasciare un’impronta così segnante nella storia di uno sport, valicandone i confini e scrivendo pagine nella cultura dell’epoca.
Muhammad Ali per la boxe, forse Michael Jordan per il basket; neanche l’uomo più veloce che sia mai stato misurato, Usain Bolt, è riuscito a divenire un eroe popolare.
I miti dello sport diventano tali quando trascendono lo status di “semplici” campioni, elevandosi a bandiere di battaglie che vanno molto oltre le mere competizioni agonistiche: così Cassius Clay diventò il simbolo di tutti gli afroamericani, trattati come cittadini di serie B negli USA; così Maradona fu l’alfiere della volontà di riscatto di argentini e napoletani.
Molte grandi firme del giornalismo sportivo hanno già cantato in abbondanza le imprese del Pibe de Oro, né possiedo le sufficienti capacità per descriverne l’immensa tecnica calcistica, il genio o come la palla fosse un’unica cosa con il suo piede sinistro.
Voglio invece provare a contestualizzarne la vicenda umana e sportiva nella società e nella cultura del Paese che gli ha dato i natali.
L’Argentina quando incomincia a sentir parlare di questo giovane genio del calcio, dal fisico “tozzo” e dal piede divino, si trova in uno dei periodi più drammatici della sua storia: la dittatura militare degli anni ‘76 – ‘83.
In sette anni sei generali si succedono come Presidenti dell’Argentina, senza nessun tipo di elezione democratica, ma venendo “eletti” da una giunta militare.
I vari Capi di Stato governano con il pugno di ferro, non esitando ad eliminare tutti coloro che vengono giudicati nemici del governo: è il tristemente noto fenomeno dei Desaparecidos, persone che scomparvero misteriosamente, prelevate in gran segreto dalla polizia militare, per finire nei campi di concentramento, essere torturate e uccise o direttamente gettate in mare.
Si stima che circa 30000 individui svanirono nel nulla in quegli anni nel Paese.
Quando nel 1978, nel pieno del regime autoritario del generale Jorge Rafael Videla, la nazionale argentina vince in casa, in maniera da molti ritenuta assai sospetta, i mondiali di calcio, Diego non ha neanche diciott’anni: è un ragazzo promettente e ha già esordito con la divisa della Selección, ma non è stato convocato per il torneo dal CT Menotti.
Quattro anni dopo quel ragazzo è diventato uno dei giocatori più forti e richiesti al mondo e si è appena trasferito dalla squadra più importante della sua nazione, i Boca Juniors, al Barcellona.
Il suo nome è già molto conosciuto ed è il leader della formazione che l’Italia, poi vincitrice della competizione a Madrid, affronta il 29 giugno 1982.
Purtroppo per lui quel giorno il nostro Claudio Gentile disputa forse la migliore partita della sua carriera, marcando come un mastino il fuoriclasse, impegnandolo in un vero e proprio combattimento corpo a corpo dal quale alla fine esce vincitore l’italiano. L’Albiceleste è eliminata dai Mondiali.
Nello stesso mese ha termine la guerra della Falkland fra Argentina e Regno Unito: il Presidente sudamericano, Generale Leopoldo Galtieri, in un estremo tentativo di far riguadagnare consenso politico al regime militare con una mossa patriottica, aveva avanzato pretese su uno sperduto arcipelago dell’Atlantico, distante 1500 km dalla costa argentina, ma abitato da un secolo e mezzo da cittadini britannici e appartenente al territorio oltremare di Sua Maestà.
Falliscono i tentativi di mediazione diplomatica e Margaret Thatcher non può far altro che risponde alle armi con le armi.
I britannici ottengono un grande successo e la Premier inglese l’anno dopo vince le elezioni con una netta maggioranza; al contrario, nel 1983 il potere dei militari in Argentina decade e ritorna la democrazia, ma molti cittadini hanno impressa l’umiliazione ricevuta l’anno prima dalla potenza europea.
Nel 1986, in Messico, Maradona è ormai il più forte giocatore al mondo ed è già la stella del Napoli, che lo ha comprato due anni prima dai blaugrana.
In quell’edizione della Coppa del Mondo non c’è nulla da fare: Diego è invincibile e trascina inesorabilmente la sua nazionale alla vittoria della sua seconda coppa.
La partita più famosa del torneo non è però la finale, ma bensì i quarti: di fronte agli argentini ci sono gli inglesi.
Il confronto si è spostato dal mare aperto di quattro anni prima al campo di calcio dello stadio Azteca di Città del Messico.
Il fantasista si scatena: dopo sei minuti dall’inizio del secondo tempo, con il risultato ancora fermo sullo 0-0, Maradona salta in area di rigore su un pallone apparentemente imprendibile; il cross è troppo alto, non può arrivarci,ma la palla si insacca, nello stupore generale, nella rete difesa dal portiere inglese.
Giocatori di entrambi gli schieramenti e anche la terna arbitrale sono incerti, non capiscono bene cosa sia avvenuto: l’unico che esulta è lui, il Pibe De Oro. Ha superato i suoi limiti umani e ha colpito, con un’elevazione eccezionale, il pallone di testa.
I compagni, ancora perplessi, corrono a festeggiarlo, chiamati dallo stesso numero 10, mentre l’arbitro, dopo un attimo di smarrimento, convalida il gol.
Solo dopo il triplice fischio, solo dopo un altro gol leggendario in cui Diego ha dribblato, un giocatore dopo l’altro, metà della squadra avversaria, si scopre che la cabeza del fuoriclasse non ha mai neanche sfiorato quella palla. A buttare irregolarmente la sfera in porta è stata la sua mano, la mano de Dios.
Gli argentini sconfiggono gli odiati inglesi per 2-1. Non nel modo più regolare.
Ma questo, in fin dei conti, ha poca importanza: nessuno avrebbe mai potuto fermare quegli undici assetati di rivincita.
Scompaiono i drammi della dittatura, le persone svanite nel nulla, la pesante sconfitta contro i britannici, la povertà, la censura: c’è soltanto lui, Diego Armando Maradona, a volare come un dio sopra le teste dei comuni mortali, punendo di sua mano l’umiliazione patita quattro anni prima.
Quel giorno muore un fuoriclasse. Nasce un dio del calcio.

EDOARDO ANDREA CANCEDDA
Writerassolutamente non richieste su tematiche più grandi di lui, sentenziando in moda barocco su politica e società.
Alla perenne ricerca di una propria identità partitica, è fermamente convinto che la vita non sia altro
che una partita a scacchi contro il tempo.