Il viaggio di Elisa – parte seconda

Facciamo un salto ad un periodo più recente: nella seconda parte del 2019 hai cambiato addirittura continente, vivendo per alcuni mesi in Giappone, a Tokyo.
Il Sol Levante, specie negli ultimi anni, affascina molto gli occidentali, tanto che parole come sushi e manga ormai sono nel lessico quotidiano anche qui da noi.
Tu hai trovato un altro mondo rispetto al Vecchio Continente? Questo soggiorno ha ampliato alcune tue vedute?

Penso di sì.
Ho trovato una cultura molto affascinante e allo stesso tempo con diverse contraddizioni.
In generale ci sono differenze abbastanza grandi, determinate principalmente dall’enorme ostacolo rappresentato dalla barriera linguistica, a partire dal modo in cui scrivono e parlano.
Questo è ciò che, secondo me, impedisce veramente a noi occidentali di comprendere la cultura asiatica.
Le loro tradizioni poi possono sembrarci a prima vista strambe, ma parlando con i miei colleghi nipponici ho realizzato che c’è tutto un senso, molto interessante, dietro la loro filosofia e che alla fine non sono poi così diversi da europei o americani.

Elisa ad Hakone, vicino a Tokyo, nel 2019

Alla fine quindi confermi la veridicità del vecchio detto “tutto il mondo è paese” e che i giapponesi, per quanto diversi, non siano poi così diversi.

Peraltro, in uno Stato così lontano dallo Stivale, ho trovato alcune problematiche uguali a quelle dell’Italia, e assenti invece in posti a noi più vicini come la Germania.
Mi riferisco ad esempio all’impiego di dottorandi nella ricerca, che nel nord Europa è massiccio, mentre sia in Italia che in Giappone la principale forza lavoro è costituita dai tesisti o comunque personale non direttamente retribuito.
Si pubblica molto, ma in gran parte grazie a lavoratori non pagati.

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Togliamoci un dente: secondo te la qualità della ricerca in Italia è migliore o peggiore rispetto ad altri Stati?

In realtà credo che la qualità degli studi in Italia, almeno quella di base, sia buona, con un insegnamento teorico che costituisce anzi un’eccellenza ed è superiore, in media, di quello all’estero.
Diverse volte, io ed altri miei colleghi provenienti da Torino, ci siamo trovati spiazzati all’evidenza che nozioni da noi ritenute elementari fossero sconosciute alle persone con cui lavoravamo.
La nostra preparazione teorica è molto solida e non credo che debba essere cambiata: un pochino in più di pratica non guasta, ma la nostra maggiore forza, come scienziati italiani, sono le ottime basi di conoscenza, che peraltro potrebbero anche permettere all’Italia di fare un salto di qualità nella ricerca.
La vera discriminante è, invece, l’assenza di strumenti più moderni e costosi con cui fare analisi e studi, che permetterebbero di risparmiare una notevole quantità di tempo e di fatica.

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In sostanza neanche un ottimo pilota può battere una Ferrari dei giorni nostri con un modello degli anni ’50.
Si torna sempre al problema del finanziamento pubblico alla ricerca.

Sì, il problema centrale è quello. Manca però anche una certa attitudine mentale ed un’organizzazione precisa.
Corruzione e giochi di potere poi non aiutano.

Quindi la ricerca in Italia e anche all’estero, non è esente dai soliti meccanismi delle raccomandazioni e dei giochi di potere?

Non penso che sia avvelenato in maniera altrettanto grave di quanto lo siano altri campi, ma è vero ad esempio che, chi ha un nome ben conosciuto o è in qualche modo affiliato a studiosi di fama, pubblica più facilmente; alcuni settori disciplinari poi sono più spinti di altri dalle riviste scientifiche.
Le stesse dinamiche si ritrovano nel percorso per diventare docente o per ottenere un posto fisso.
Come nell’industria e come in tutto il mondo, anche nella ricerca il potere conta. In Giappone mi raccontavano quotidianamente di questo.

Giappone poi, che ha la sinistra fama di essere uno Stato dove la competizione è molto presente fin da quando si è bambini.

Sì, direi che lì la vita sul posto di lavoro è molto difficile e devi dedicarti anima e corpo alla carriera.
Nelle università le posizioni pagate sono poche e penso che la competizione fra gli studenti debba essere spietata. In Italia si è abituati a mettere la famiglia davanti al lavoro, salvo poche eccezioni, mentre in Giappone la famiglia viene molto dopo la carriera.
Manca proprio il tempo per stare con i loro cari: per loro è normale iniziare a lavorare alle 8 e finire magari alle 10 di sera o a mezzanotte e se terminano prima vanno a bere con i colleghi.
Il tutto sei giorni a settimana e con ferie minime.

Se dovessi sbilanciarti a indicare la nazionalità dei colleghi con cui ti sei trovata meglio?

In generale io ho lavorato poco a stretto contatto con gli altri nel mio progetto, però ho avuto uno studente magistrale italiano, proveniente da Torino e con il quale mi rapporto tuttora, con cui mi sono trovata molto bene, ma questo più che altro grazie al fatto che è un ottimo ricercatore con tanta voglia di fare.

Italia, Germania, Spagna, Giappone. Devi scegliere uno di questi Paesi per trascorrerci i prossimi anni.

Ad essere realistici, la Germania è quello che offre più possibilità.
La qualità della vita è abbastanza alta ed opportunità di ricerca e lavoro non mancano.
Se dovessi ragionare in termini di vita sociale e di clima, la mia scelta cadrebbe sulla Spagna.
Il meteo di Madrid è fantastico e si può uscire tranquillamente molte sere, ma purtroppo fare ricerca è impossibile.
Il Giappone no: per viverlo pienamente, senza essere esclusi, è necessario impararne la lingua e padroneggiarla in maniera fluente è un’impresa titanica.
In ogni caso poi sarei comunque un
outsider: appena esci da Tokyo, che è ovviamente la città più internazionale dello Stato, se sei un europeo tutti ti fissano.

Nei tuoi anni all’estero hai mai percepito pregiudizi sugli italiani o sei mai stata tu stessa vittima di razzismo?

Non penso che sia voluto: certo, è brutto sentire “Ah italiano, mafia”, ma è anche vero che in genere lo dicono con una tale genuinità che forse davvero non pensano di offenderci.
Qualche scherzo innocente è capitato, ma circoscritto per lo più ai momenti in cui si rideva bonariamente giocando con gli stereotipi. Nessuno mi ha mai detto di tornarmene al mio Paese.

In questi quattro anni di vita all’estero, ti è mai mancata la tua patria?

Beh, sì.
A partire dal cibo italiano, che in Spagna è raro, anche se la cucina locale non è affatto male.
Mi mancano le montagne e ovviamente la famiglia e gli amici.
Certe volte, specie i primi tempi, ho avvertito banalmente la sofferenza di non parlare più quotidianamente nella mia lingua
, di dover sempre concentrarmi, anche solo un minimo, per parlare.

Qual è, secondo te, un aspetto della vita di un ricercatore all’estero che è abbastanza trascurato, quando si racconta questa tipologia di vita?

Credo che si tenda troppo ad idealizzarla.
All’estero non è tutto rose e fiori, né in Italia è tutto fango, ma la situazione è più complicata.

Perché consiglieresti di fare ricerca all’estero ad un giovane studioso italiano incerto sul suo futuro?

Prima di tutto per imparare bene l’inglese, la lingua più usata nella ricerca, in maniera rapida e poco faticosa.
Nei grandi centri internazionali il lavoro è molto divertente ed un’esperienza lì apre davvero la mente.
Però credo che sia altrettanto importante non sentirsi neanche obbligati a fare un dottorato fuori; forse è meglio prima soggiornare per sei mesi e poi decidere: non sono pochi quelli che si rendono conto di preferire la vita in Italia.
Dal punto di vista relazionale e dei legami è un’esperienza che purtroppo ti costringe a delle rinunce.

Rifaresti la tua scelta?

Sì.