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Ci sono fenomeni che nascono, crescono, e soprattutto si mantengono intorno a noi senza che ce ne accorgiamo. E se ce ne accorgiamo è perché a) c’è un fatto, un evento, un cambiamento, una crisi del fenomeno e quindi una disamina dello stesso a livello sociale; oppure perché b) chi è protagonista o testimone diretto di quel fenomeno ne sottolinea la presenza e le caratteristiche.
In queste settimane in Italia si è parlato parecchio della Rape Culture (cultura dello stupro), un fenomeno definito nel 1993 da tre studiose in ambito dei Gender Studies. E’ bastato il video di una figura popolare (e per popolare intendo conosciutissima, più che apprezzata) per parlarne, in maniera precisa e diffusa, e riprendere concetti, ideologie violente che – ahimè – tornano sempre utili, perché vivono intorno a noi anche quando non ne siamo consapevoli. La difesa social da parte di Grillo del figlio abusante (o, in ottica garantista, di un uomo accusato di abuso sessuale nei confronti di una donna) si radica in un complesso di credenze e di posizioni che sono davvero difficili da districare. E se a farlo è un uomo che sui social ha potere, e può anche letteralmente alzare la voce, la difesa diventa un coacervo di problematicità e di complessità. E visto che si è presentata l’occasione, meglio parlarne il più possibile, approfondire e fare delle riflessioni.
Rape culture, Cultura dello Stupro: un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne (Emilie Buchwald, Pamela Fletcher, Martha Roth; 1993)
La cultura dello stupro, e quindi la discriminazione e la violenza, hanno dalla loro parte il fatto di essere spesso la voce più grossa di un discorso collettivo, quella più frequente, quella che liquida le questioni con “è così”, quella che si basa su una patologica normalizzazione con un banale e semplicistico “succede”, soprattutto quando le persone che ne parlano e denunciano la situazione non hanno nessuna voce in capitolo ed è facile screditarle.
Nella nostra società è molto facile screditare le donne: lo si fa quando le si associa continuamente alla loro fisicità, quando le si associa all’emotività “esagerata”, quando si spiegano reazioni di difesa, di rabbia o semplicemente assertive con l’avere le mestruazioni, quando si associa la soggettività di una donna all’interno genere femminile; le si scredita quando si chiede “com’eri vestita” o “cos’hai fatto tu per farlo arrabbiare o per provocarlo così”, quando si liquida qualsiasi protesta o atto di determinazione con “che esagerazione!”. Nella nostra società è facile screditare le donne ed è facile fare del “gaslighting”, termine che indica la manipolazione di opinioni, idee e addirittura vissuti, in ottica di indebolire la persona che sta mostrando dei bisogni, sta polemizzando, denunciando un fatto o semplicemente mostrando delle emozioni.
Se alla facilità dello screditare si unisce la diffusione subdola eppure densa della rape culture, il risultato è la presenza massiccia di persone a rischio altissimo di vivere abusi senza la possibilità di essere ascoltate, credute, e senza la possibilità di cercare protezione. Questa è la dinamica che sta sotto ogni tipo di trauma psicologico: il trauma non è costituito esclusivamente da un evento che crea danno, quanto da ciò che succede dopo e intorno alla persona che ha vissuto quell’evento. E’ costituito dall’impossibilità di affrontare l’evento negativo in maniera lineare, dall’ impossibilità di parlare di ciò che è successo e di farlo in condizioni di sicurezza. Il trauma avviene quando, il giorno dopo l’evento, si è certi che parlandone si verrà attaccati, si verrà isolati, ci si sentirà chiedere “E tu cos’hai fatto per fermarlo?”, e si inizierà a pensare “E’ colpa mia” e a rimuginare su tutto ciò che è stato fatto, pur non avendo responsabilità.
Questa è la cultura dello stupro, nella definizione del 1993: “Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse.”.
Eppure le scienze psicologiche e traumatologiche sono molto chiare su questo: la violenza sessuale non è normale. Normalizzare la violenza sessuale significa fare gaslighting, silenziare vissuti, isolare le persone, distruggere immagine di sè e senso della realtà. In termini di salute mentale e psicologica questo meccanismo può essere davvero deleterio. Quando si vive nel potenziale ma costante rischio di vivere qualcosa di distruttivo, banale da dire, non si vive bene: né il proprio corpo, né la propria sessualità, né la propria libertà.
Il rischio di essere sempre attaccate, anche quando si è vissuta una situazione di violenza, è l’effetto collaterale più potente della rape culture, ed è davvero il punto critico; è diventato proprio questo l’elemento che ha dato il via alla condivisione sui social delle storie di numerose donne – e non solo – che non hanno denunciato i loro abusanti il giorno dopo (seguite l’hashtag #ilgiornodopo sui social) ma che, per un motivo o per l’altro, hanno tenuto sottovoce il proprio vissuto e l’hanno costretto in una “normalità” sollecitata patologicamente della rape culture.
Ci sono persone che vivono violenze, discriminazioni, abusi di ogni tipo e che non hanno voce nello spazio pubblico. E se ce l’hanno è molto facile che vengano screditate. Alcune domande critiche che possiamo sempre farci quando si parla di una situazione di violenza, è: quale voce dev’essere ascoltata? Chi viene difeso dall’opinione pubblica? Cosa penso di chi denuncia? Chi viene screditato più facilmente, e come?
Cosa fare, oltre al pensiero critico?
Ascoltare, innanzitutto.
Ascoltare e stare attenti a non minimizzare mai i vissuti di chi condivide (privatamente o pubblicamente) una storia di violenza. Ascoltare è il primo grande passo per non diffondere e mantenere la rape culture.
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