Recessional Generation

Pochi eventi nella storia hanno avuto un effetto ambivalente e contraddittorio come la recente crisi derivante dal Covid-2019, ossia, spiegando in parole semplici: i giovani, utilizzando le misure di precauzione suggerite dalle autorità, hanno sì aiutato a evitare un “conto” peggiore a carico delle vecchie generazioni – indubbiamente le più esposte al contagio – ma nel contempo, pur essendo eticamente privi di macchia, hanno contribuito con il loro comportamento a “scavarsi la fossa” da un punto di vista economico.

Non sussiste dubbio alcuno, infatti, sul fatto che la recessione economica successiva all’epidemia avrà un effetto profondo e anche più duraturo del previsto: limitandosi al caso italiano, la Commissione Ue ha previsto per il 2020 un crollo del Pil pari all’11,2% – cioè più del doppio rispetto alla recessione della Grande Crisi Finanziaria del 2008 – con un debole recupero previsto solo a partire da gennaio 2021.

La generazione dei “Millennials” è quindi stata ribattezzata dai più acuti osservatori internazionali come Recessional Generation”, ovvero la generazione dei figli della recessione “eterna”.
Il doppio colpo “crisi globale 2008 + coronavirus” ha semplicemente gettato un’intera coorte (quella dei nati tra il 1980 e il 1996) nel baratro di una depressione economica ed esistenziale che rischia di pregiudicare carriere appena sbocciate e già prematuramente abortite.

I tre grandi problemi di quelli che genericamente chiamiamo “giovani” – un esercito indistinto di neolaureati, partite Iva, precari cronici e lavoratori interinali – sono destinati ad aggravarsi: in primis, ovviamente, la disoccupazione e l’inattività, due vere piaghe che hanno falcidiato l’Italia e l’Europa negli ultimi anni e che ora si aggraveranno anche a causa del crollo dei lavori part-time e di tutto il settore “informale” (comprendente il lavoro nero); secondariamente, l’incapacità di poter avviare progetti di vita imperniati sull’indipendenza dal nucleo famigliare, basti pensare a paesi come l’Italia o la Spagna ove circa i due terzi degli under 34 vivono ancora con i genitori; la terza problematica, infine, è legata alle scarse prospettive di carriera, in quanto l’aver vissuto due crisi economiche devastanti nel ristretto spazio di un decennio certamente lascerà delle cicatrici destinate a riverberarsi sui redditi futuri di chi oggi inizia – o dovrebbe iniziare – un percorso lavorativo.

Tutto ciò – l’accumularsi di nubi nere sull’orizzonte di una vita già segnata da svariate precarietà (lavorativa, economica e affettiva) – non può che far sorgere un legittimo quesito: i millennials sono destinati a un’infelicità cronica?
Le statistiche rilasciate dopo il lockdown sembrano confermare le più fosche previsioni: i livelli di ottimismo e di felicità percepita sono scesi a picco sia tra i teenager sia tra i trentenni.

Il sentimento di ingiustizia radicale covato dai giovani spiega le tendenze politiche che possiamo registrare tanto in Europa quanto negli Usa: la grande maggioranza degli under 40 non ha più alcuna fiducia nei sistemi politici nazionali e anche l’Unione Europea sta facendo registrare cali record di consenso; a fronte di ciò, crescono i partiti anti-sistema e alcuni Paesi – come ad esempio l’Ungheria – fanno registrare torsioni autoritarie.
Di fronte al disastro della globalizzazione, l’opzione politica nazionalista sembra risorgere tanto nell’Est Europa quanto nell’America di Trump (attraversata da tensioni razziali ormai gravissime). 

Frastornati da un caos fatto di scarse opportunità e di paure ataviche (dal virus al terrorismo, passando per i cambiamenti climatici), i giovani si apprestano a entrare nuovamente in un altro tunnel economico che fatalmente segnerà il loro modo di vedere e interpretare il mondo.
Questi sconvolgimenti sapranno migliorarli in meglio?
Solo la sorte potrà dirimere la questione.