
L’altro giorno, nella buca delle lettere, ho trovato un volantino. Arrivando giù dalle scale ho pensato “la solita pubblicità”, ma mentre stavo per buttarlo via leggo “Chiacchiere di portineria” e mi incuriosisce.
Si tratta del progetto “Lo Spaccio di Cultura- Portineria di comunità” messo in piedi dalla Rete Italiana di Cultura Popolare.
Lo scopo è quello di creare una sorta di portineria che sia luogo di scambio, incontro e realizzazione di una microeconomia di quartiere partendo dalla base che la sua comunità è, prima di tutto, un insieme di persone che si relazionano tra loro e non edifici ed oggetti.
Una microeconomica che si attua prima di tutto con la coprogettazione con il territorio, che vuol dire rendere i cittadini protagonisti del luogo che abitano.
Poi si tratta di implementare i progetti che si vogliono portare avanti attraverso la creatività per dare vita ad attività culturali, educative, performative, fornitura di servizi e così via.
Servizi intesi come le piccole attività quotidiane di cui quasi tutti i giorni una persona può avere bisogno e che, preferibilmente, vorrebbe trovare nella propria zona.
Alcuni esempi: lavoretti di sartoria, riparazioni sulla tecnologia, commissioni in uffici pubblici, dogsitting, babysitting, ripetizioni, ritiro pacchi, tuttofare per la casa.
A questi, come dicevo, si affiancano altre attività per far conoscere tra loro gli abitanti del quartiere, creare un gruppo solidale che possa condividere anche classiche attività come il cinema e appuntamenti di culturali e perché no, in tutto questo, avere anche un risparmio economico.
Il progetto di cui ho appena parlato mi ha fatto tornare in mente la mia tesi di laurea magistrale, che riguardava l’innovazione sociale e il caso specifico delle Case del Quartiere di Torino.
Queste ultime si offrono come punti di riferimento per le comunità di alcuni quartieri della città.
Lo scopo è sempre quello: promuovere la creazione di progetti sostenibili partendo dalle persone “sotto casa”, coinvolgere gli abitanti per una cittadinanza attiva e creare una rete di condivisione di servizi e attività che possano essere da tutti e per tutti nella quotidianità.
In questo senso, nella mia ricerca, per scoprire se ed eventualmente quanta innovazione sociale portassero avanti le Case del Quartiere, è stato importante analizzare da vicino le persone che maggiormente coinvolgono da quando sono nate, da una decina di anni a questa parte.
Le persone che si cerca maggiormente di “attrarre” sono quelle facenti parte della fascia “debole” della popolazione: immigrati, aventi basso reddito, con problemi fisici o psicologici, giovani disoccupati, insomma, tutti coloro soggetti all’esclusione sociale.
Sull’analisi delle età dei frequentanti delle Case, i dati in percentuale che ne risultano sono i seguenti: 16,3% di età inferiore a 14 anni, 10,4% tra i 14 e i 25 anni e 33,4% tra i 26 e i 45 anni. Il restante 38% ha età superiore ai 46 anni. Possiamo dedurne che è soprattutto la fascia più giovane a godere dei servizi e delle attività che vengono offerte, in via spesso gratuita o con agevolazioni di prezzo adattate al potenziale economico di ognuno.
Ma qual è l’impatto effettivo sui giovani di luoghi come questi e quanto effettivamente possono essere coinvolti?
A seconda dei quartieri vi è chiaramente una differenza di frequentazione e una proposta progettuale differente che tende a coinvolgere sempre più gente possibile.
Due esempi: uno viene proposto dalla Casa Cascina Roccafranca (Mirafiori Nord) che mira a coinvolgere giovani tra i 18 e i 29 anni per creare una “young board” che riunisca ragazzi che si dedichino a creare eventi in cascina, un altro è quello della Casa del Quartiere di San Salvario che collabora con i licei per creare progetti di street art e di riordino delle aree verdi della zona.
Le attività che si promuovono vanno dalle più classiche (ripetizioni, lingue straniere, recitazione, canto, …) ad altre molto più particolari, come la riscoperta dei lavori di sartoria, la creazione di prodotti cosmetici e per la casa fai da te, assaggi di cucine internazionali e così via.
Ognuno è libero di proporre nuovi progetti ed è così che si crea un “miscuglio” di persone che insegnano, imparano, condividono la propria diversità e le proprie conoscenze con gli altri.
Un ambiente assolutamente stimolante per i giovani, che oggi si trovano immersi e sovrastati dalla tecnologia e, il più delle volte, dalla cultura occidentale. Un luogo di incontro che permette di riscoprire se stessi in rapporto agli altri e crescere con la capacità e l’intuizione di poter sempre trovare una soluzione sostenibile e coinvolgente partendo dalle risorse a portata di mano, persone o oggetti che siano.
Riscopro quindi la mia città che propone dei progetti sempre più accattivanti sul piano sociale, partendo proprio dai rapporti di vicinato e dalla solidarietà, sviluppando una capacità che va sempre più perdendosi ed è bello poter riportare a galla, specialmente per le generazioni future: poter fare molto con poco e contare gli uni sugli altri.
Uno per tutti, tutti per uno!