Le ragazze…stanno bene? L’influenza del genere sulla salute mentale (e due consigli di lettura!)

Disclaimer: L’articolo vuole essere uno spunto di riflessione sull’influenza del genere sulla salute mentale di donne e uomini, soprattutto per quanto riguarda gli stereotipi legati alle emozioni e al dolore. Ci sono attualmente molti più studi sulla salute mentale e il benessere psicologico al femminile, perché il dolore emotivo è visto socialmente come una debolezza (e chi è anche socialmente considerato il sesso debole?).
Quindi se non sei una ragazza, prova a vedere che effetto ti fa leggere l’articolo. 

Dicci poi cosa ne pensi alla mail info.corejournal@gmail.com.

“Le ragazze stanno bene” è il titolo del libro di Giulia Cuter e Giulia Perona, edito da HarperCollins, uscito inizio 2020. Il saggio propone alcuni spunti di riflessione sui temi che toccano, volente o nolente, la vita di ogni donna (e tra le righe, traccia le differenze con le vite degli uomini): la pubertà, la differenza di educazione nell’infanzia, il corpo e l’estetica, la sessualità, le relazioni e il matrimonio, il lavoro, la genitorialità, la politica, il consenso. Le autrici scrivono di esperienze personali in maniera impersonale, il che rende la lettura un susseguirsi di “WOW, ma questo è successo anche a me/a mia sorella/a mia madre/alla mia fidanzata“, e lo rende quindi molto accessibile anche a chi non ha vissuto in prima persona gli episodi riportati.
Scorrendo tra gli episodi e le riflessioni, è facile capire che in occidente si sono fatti alcuni passi avanti sulla parità di genere, ma non basta ancora: le ragazze tutto sommato stanno bene, sì… ma fino a un certo punto.

Alcune degli episodi  riportati sono talmente diffusi che non pensiamo alle conseguenze che portano alla nostra salute psico-fisica. Sono tutte situazioni create dall’appartenere al genere femminile: non sono confessioni personali delle autrici ma scene “tipiche” che quasi tutte le ragazze a un certo punto hanno vissuto.
Quando si parla di genere si intende quella categoria di caratteristiche attribuite a priori a una persona, sulla base del suo essere uomo o donna.
Vivere in una società altamente “genderizzata”, dove ci sono categorie di genere rigide, continuamente rappresentate dai media, dalla società e dal nostro pensiero individuale, e regolate da principi che impongono comportamenti, responsabilità, etichette specifiche, non aiuta la salute mentale, perché di base non supporta la libera espressione di sé a livello psicologico, emotivo, relazionale e fisico. Quando si nasce con un determinato corpo, e a questo corpo viene assegnato un genere, i familiari, i conoscenti, le istituzioni, la società tutta hanno delle aspettative: e queste aspettative fanno un po’ da “regolamento” sul comportamento e sulle scelte personali. Succede poi che queste regole non scritte le facciamo nostre, le usiamo per controllare il nostro comportamento e quello delle persone intorno. 

Sei una donna? Allora devi fare questo, devi essere così, devi mostrare il dolore in un certo modo. Sei un uomo? Allora devi fare questo, devi essere così, il dolore lo devi mostare così.


Per riflettere su come il genere tocca il nostro benessere psicologico, iniziamo a farci queste domande:
– Si arrabbiano di più le ragazze o i ragazzi?

– Piangono di più i ragazzi o le ragazze?

– Chi ha la soglia del dolore fisico più alta? E quella del dolore emotivo? (ovvero, chi soffre meno?)

– Chi si preoccupa di più per le altre persone? 

Se ci allontaniamo per un po’ dalla nostra personale visione delle differenze di genere e consultiamo le ricerche, scopriamo che una delle aspettative di genere più forti (e che ha grandi effetti sulla salute mentale) è quella legata al display emotivo, termine con il quale si intende il modo in cui esprimiamo e mostriamo agli altri le nostre emozioni. Il display emotivo è influenzato da fattori personali, ma soprattutto da fattori culturali: il che significa che impariamo dalla società quando, come e con che intensità mostrare le nostre emozioni, e il nostro dolore. La nostra società ci dice che se siamo ragazze è meglio mostrare alcune emozioni e in un certo modo, se siamo ragazzi è meglio che mostriamo altre emozioni e secondo certe regole, e ce lo dice in una maniera talmente silenziosa e subdola che poi diamo per scontato che sia così. 

Quindi, quando sentiamo un’emozione, la cultura in cui viviamo influenza il modo di esprimerla e di comunicarla.
Ma quando un’emozione viene silenziata, trasformata, o comunicata in maniera non autentica perché deve seguire dei codici sociali, la nostra mente in qualche modo si confonde, e al contempo, cerca un modo di compensare, e non sempre queste strategie portano benessere, anzi.
Pensiamo a quando, come ragazze, ci arrabbiamo.
La rabbia non è ben vista al femminile: se mostrata, è ritenuta esagerata, isterica, drammatica, “hai il ciclo?”.
Se a mostrarla è un ragazzo, è molto più probabile che sia vista come un segnale di autorità, di forza, di consapevolezza, di assertività, di “sa quel che vuole”. In quest’ottica,
il libro “La rabbia ti fa bella” di Soraya Chemaly (HarperCollins, 2019), fa una disamina estremamente illuminante su come la rabbia sia socialmente regolata in base al genere. La Chemaly riporta numerose ricerche che sottolineano come la concezione negativa della rabbia delle ragazze e delle donne sia altamente patogena, perché secondo la società le donne non si arrabbiano, e se lo fanno non vanno ascoltate: questo porta le ragazze a non capire quando sono arrabbiate, e quindi a non riconoscere quello che succede dentro di sé e di conseguenza a non reagire in maniera assertiva.
Questa cecità sociale verso la rabbia femminile è un forte fattore di rischio per le psicopatologie e le somatizzazioni (ovvero quei disturbi/malattie che si esprimono attraverso il corpo ma hanno origine emotiva). Quando la rabbia non viene riconosciuta non si impara bene a sentirla ed esprimerla: eppure c’è, e la mente, se si accumulano le situazioni in cui la rabbia rimane inespressa, la trasforma a livello psicologico soprattutto in disturbi d’ansia, e depressione, ma va a influenzare anche i disturbi alimentari, i disturbi sessuali, le malattie dermatologiche e cardiache (per un approfondimento, la bibliografia del libro di Chemaly è davvero ricchissima e precisa).

Pensiamo poi a quando siamo tristi. Le ragazze piangono. È normale, siamo emotive, siamo fragili, ci rimaniamo male, “hai il ciclo”?. E i ragazzi?
Su questo le ricerche sono, ahimè, ancora poche, ma ci sono.
Quello che risulta è che
lo stereotipo secondo cui i ragazzi non piangono fa male alla salute mentale maschile. Piangere segnala agli altri quando siamo tristi: la tristezza è un’emozione normale, può e deve essere condivisa. É letteralmente fisiologico comunicare la nostra tristezza: è nasconderla a tutti i costi che a lungo andare intacca l’equilibrio psicologico.

Influenzati dagli stereotipi di genere, è molto probabile che almeno una volta nella vita, inconsapevolmente, abbiamo nascosto delle emozioni perchè “Le ragazze non fanno così” e “I ragazzi non fanno così”.
Eppure le emozioni sono, banalmente, estremamente umane. E viverle bene, come un processo naturale, porta benessere psicologico e anche salute fisica.
Non è questa la sede per analisi approfondite sulle differenze cerebrali, ormonali e fisiche (e per un’analisi critica su come alcune ricerche nascano dagli stereotipi stessi): ma è importante ribadire che c’è molto da fare per la libertà emotiva, ovvero la libertà di sentire, di reagire, di determinarsi

Come giovani viviamo a metà tra la generazione che ci ha preceduti, una generazione che non ha mai parlato tanto di emozioni e di benessere psicologico, e la generazione dei giovanissimi, che sta facendo delle emozioni un terreno di battaglia e autodeterminazione (anche e soprattutto sfidando i generi e gli stereotipi).

Dove possiamo stare noi? Iniziamo dal capire, quando sentiamo delle emozioni, cosa ci dicono e come ci fanno stare. E poi cerchiamo un posto sicuro nelle persone fidate; scegliamo persone con cui mostrare le emozioni in maniera autentica.
Per qualsiasi difficoltà possiamo anche far affidamento a un aiuto professionale: le emozioni ci ricordano che siamo vivi e vegeti e che siamo in connessione con gli altri, a prescindere dal genere a cui sentiamo di appartenere.