Memento Mori

“Non v’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l’intervallo”

Questa celebre fase di Schopenhauer sintetizza una delle più atroci verità della nostra esistenza, forse l’unica vera certezza cui ci troviamo di fronte.

Infatti, dalle minacciose profezie del mito greco all’inquietante saga di Final Destination, la morte ha sempre tormentato l’animo umano… ma sarebbe possibile prevedere esattamente quando moriremo? E che implicazioni avrebbe sul mondo una simile conoscenza?

In ottica dionisiaca: cosa dice l’arte...

Il mondo antico aveva idee abbastanza chiare a proposito. In un universo in cui gli oracoli imperavano e l’ineluttabilità del destino la faceva da padrone, spesso si attribuivano a soggetti morenti delle capacità profetiche. Così ad esempio, nei celeberrimi versi omerici, Patroclo, ferito a morte da Ettore, predice a quest’ultimo la sua fine: «… davvero tu non andrai molto lontano, ma ecco ti s’appressa la morte e il destino invincibile: cadrai per mano d’Achille, dell’Eacide perfetto»1. E sappiamo che, poco tempo dopo, Ettore verrà davvero ammazzato dal piè veloce. Il mondo del mito del resto pullula di esempi analoghi, e noi, da uomini moderni, leggiamo il tutto con interesse, magari con l’ombra di un sorriso, forse latore di una inconscia sensazione di superiorità. Però l’ineluttabilità della morte fa comunque parte di noi, che lo vogliamo oppure no, e la nostra psicologia non è così differente da quella dei nostri antenati. Infatti, facendo un salto di qualche millennio in avanti, e immergendoci nel mondo del cinema, ne “Il Settimo Sigillo”, capolavoro di Bergman del 1957, il fatto che Antonius procrastini la propria dipartita con una partita a scacchi ha una pregnante valenza simbolica, e sottolinea in maniera perfino spietata la verità innegabile: la vita è davvero una partita a scacchi contro la morte. Forse, a ben vedere, la filosofia più pragmatica di fronte a tali riflessioni macabre è quella di Epicuro, che non se ne interessava granché, giacché “quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo più”.

E in ottica apollinea: parola alla scienza...

Chiunque mastichi le basi di statistica e di epidemiologia, comprende che non vi è nulla di trascendentale nel capire quando giunge l’ora della morte. Basta sapere “giocare” con i dati giusti. Come?

Innanzitutto conoscendo l’età di un soggetto (un ventenne avrà un’aspettativa di vita diversa da un ottantenne) e lo Stato di residenza (l’aspettativa di vita in Giappone, lo Stato più longevo, è mediamente di quasi 84 anni, mentre in Sierra Leone è di appena 50 anni) già si può sviluppare una grossolana previsione. Ma non è sufficiente.

Ovviamente entrano in gioco il sesso (le donne mediamente sono più longeve degli uomini), presenza di patologie in atto (un trentenne con un melanoma in stadio terminale avrà un’aspettativa di vita diversa da un trentenne sano), probabilità di svilupparle (genetica e anamnesi famigliare permettono di scovare famiglie in cui magari vi è tendenza ad ammalarsi di cancro, diabete o altre patologie croniche che impattano sulla sopravvivenza) e abitudini di vita (ad esempio una guida alpina avrà intuitivamente un rischio maggiore di un impiegato di banca). Naturalmente infiniti altri fattori contribuiscono, ma per un’approssimazione statistica questi dati sarebbero già preziosi. Si possono sviluppare quindi modelli matematici che combinino questi elementi. Ciò è compito ad esempio di un programma di ricerca statunitense, il National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), che tramite interviste dettagliate e esami clinici su campioni sufficientemente ampi e rappresentativi di popolazione, si pone l’obiettivo di descrivere la salute delle persone e osservare quali fattori sono associati ad un’aumentata mortalità. L’obiettivo, importantissimo ed evidente, è di capire cosa andare a correggere mediante interventi di sanità pubblica (e.g. con campagne di sensibilizzazione sull’alimentazione corretta, attività fisica, vaccini, screening tumorali ecc.).

Morirai domani, mese più o mese meno...

I dati NHANES dal 2003 al 2006 sono stati analizzati da un team di ricercatori dell’Institute of Physics and Technology di Mosca, i quali, nel 2018, hanno sviluppato un’app, Gero, che permette di calcolare la data della morte dell’utente con un’approssimazione di circa 36 giorni, valutando semplicemente, oltre all’età del soggetto, il livello di attività fisica. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports.

Alcune riflessioni…

Che sia attendibile o meno, non lo discuteremo in dettaglio. Certo che con analisi multivariate si possono trarre predizioni e conclusioni abbastanza precise, e questo è la realtà quotidiana ad esempio nella ricerca oncologica, in cui si usano modelli matematici per “predire” l’efficacia di un nuovo trattamento o l’impatto sulla sopravvivenza di un determinato fattore di rischio.

In parole povere: è difficile, se non impossibile, che l’utente si trovi senza preavviso con una spada di Damocle sulla testa o una profezia di morte imminente. È insomma assai inverosimile che anche sul peggiore pantofolaio del mondo piombi all’improvviso un memento mori della serie: you’re going to die tomorrow!

In un’ottica ottimistica e costruttiva, l’idea è interessante in quanto permetterebbe di comprendere quali fattori impattano sulla sopravvivenza (a quanto pare, l’app sopracitata invierebbe anche dei feedback su come migliorare lo stile di vita qualora l’utente “sgarri”) e quindi, anche alla luce degli altri elementi valutati nel NHANES, contribuire al miglioramento della salute e quindi della qualità della vita.

D’altro canto, il lato pessimistico dell’intera faccenda è che tali informazioni, soprattutto se non regolate da una ferrea e inviolabile privacy, sarebbero potenzialmente alla mercé di datori di lavoro, compagnie di assicurazioni ecc. con conseguenze non sempre prevedibili e dagli sviluppi potenzialmente oscuri.

Ulteriori dibattiti su questo tema nevralgico ed estremamente complesso sul piano filosofico e scientifico, li lasciamo ai singoli lettori, ma concludiamo con una massima latina che forse può sintetizzare al meglio l’atteggiamento più corretto da assumere nei confronti del mondo moderno, che muta così repentinamente: disce ut semper victurus, vive ut cras moriturus2!

Note:
1Iliade, XVI, vv. 852-854, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi.

2Impara come se dovessi vivere per sempre, vivi come se dovessi morire domani.

 

UMBERTO MACCIÒ

Writer
Torinese, classe 1991, è medico e lavora a Zurigo.
Scrittore nel tempo libero e anche appassionato di antichità classica, podismo e montagna.