Prevenzione del suicidio: parlandone è possibile

Il 10 settembre è la giornata internazionale per la prevenzione del suicidio. Non è facile parlarne, ma è fondamentale farlo.
Secondo la WHO, ogni 40 secondi una persona muore suicida. Nel mondo, il suicidio è tra le prime tre cause di morte per i giovani tra i 15 e i 34 anni, e la seconda causa di morte per quelli tra i 15 e i 29 anni. Un male diffuso che non può e non dev’essere ignorato, che si insinua nelle famiglie, nelle comunità, nella società e su cui è doveroso creare rete: di supporto, di parole, e di empatia.

Quello del suicidio è un tema complessissimo: non c’è una causa univoca, non ci sono gruppi sociali meno a rischio, fasce d’età, territori, o generi meno colpiti. Ci sono tanti fattori di rischio e tante specificità quante sono le persone che muoiono suicide.
Non è specifico di un periodo storico, anche se alcune dinamiche sottostanti e alcuni fattori di rischio sono influenzati dalla società in cui si vive. Non è solo un dettaglio sociale (i dati parlano chiaro) o un argomento letterario, ma è anche oggetto di ricerca sistematica: lo studio scientifico del suicidio si chiama Suicidologia, ed è nato nel 1957, quando Shneidman e Farberow pubblicarono il loro articolo sulle suicide notes.

Lo stigma

In passato, il suicidio veniva letto principalmente in ottica religiosa (e quindi sociale), come un peccato contro Dio e la morale: fino a qualche tempo fa non erano permessi funerali religiosi ai suicidi. Attualmente, nonostante i passi avanti, vi sono numerosi pregiudizi intorno al suicidio. C’è chi lo vede come un gesto codardo, una drammatizzazione esagerata, una ricerca di attenzioni finita male, una pigrizia sottostante nel cercare delle soluzioni. Invece, sotto, non c’è nulla di tutto questo.
Sotto ci può essere una psicopatologia, un evento di vita traumatico o estremamente stressante; spesso c’è molto isolamento sociale e poche possibilità (psicologiche, sociali, economiche) di trovare alternative a una situazione negativa. Per quanto riguarda la prevenzione del suicidio dei giovani, alcune realtà internazionali hanno pensato che una soluzione potrebbe essere quella di rafforzare le life skills e il coping, quindi la capacità di affrontare situazioni negative e i fallimenti, e di ridimensionare i vissuti di autosvalutazione a cui spesso noi giovani facciamo ricorso quando le cose non vanno come vorremmo (o come ci dicono che dovrebbero andare).

In sintesi, dietro il suicidio ci sono fattori di rischio individuali, ma anche sociali. E quando un problema ha radici sociali, diventa responsabilità di tutti occuparsene, con quello che abbiamo: non dobbiamo per forza essere dei terapeuti per contribuire a cambiare lo stigma e i pregiudizi intorno al suicidio.

Lo stigma crea resistenza, negazione e vergogna attorno al tema. E quando ci sono questi atteggiamenti nasce la confusione, il silenzio, e l’isolamento. I pensieri suicidi accompagnano un vissuto intenso di disperazione e di solitudine, e l’incapacità di pensare un futuro diverso, un’alternativa o una soluzione al dolore che si sta vivendo. Più si provano questi vissuti più si ingrandiscono e diventano totalizzanti se non vengono esternati o se non c’è ascolto; e se socialmente non se ne parla in maniera adeguata, la persona rimarrà ancora più isolata e sola con questi pensieri. Nemmeno i survivors (ovvero familiari o amici in lutto per un caro suicida) troveranno accoglienza per il proprio dolore, e non lo potranno esprimere, perché socialmente c’è molta difficoltà a dare spazio e accoglienza alle emozioni che provoca la situazione. Più se ne parla è meglio è. Meno stigma e imbarazzo ci sono intorno al tema, più probabilità ci sono che i suicidi non siano messi in pratica.
Anche le parole sono importanti: per esempio sarebbe meglio non utilizzare il termine “commettere” quando si parla di suicidio, in quanto lo avvicina inconsapevolmente a un crimine o un gesto da accusare. Sotto un suicidio c’è molto dolore, e il dolore non si accusa: si può raccontare e si può ascoltare e accogliere.

Cosa si può fare?

Uno dei timori più diffusi, quando sappiamo di qualche persona con pensieri suicidari, è quello di nominare davanti a lui/lei il suicidio, chiedere, o esprimere preoccupazioni esplicite: sarebbe invece meglio parlarne. Parlare di un argomento serve ad affrontarlo, a condividerne le preoccupazioni, a conoscerlo: e quindi anche a razionalizzare e a trovare piccole e grandi soluzioni. Per una persona con pensieri suicidi, condividere questi stessi pensieri può essere fondamentale. Percepire di non essere soli o di non essere un peso per gli altri, anche quando si hanno questi pensieri, può costituire il primo passo verso la sopravvivenza.

Di base, una persona che inizia a pensare al suicidio percepisce emotivamente in maniera intensa di essere un peso per gli altri, di essere solo/a, e di non avere nessuna possibilità che il dolore si attenui, cambi o finisca. Questi tre elementi, quando presenti, aumentano la possibilità di suicidio. È molto difficile che una persona in difficoltà espliciti così i suoi vissuti, quindi ci sono dei gesti, dei comportamenti o dei dettagli che in qualche modo esprimono questi sentimenti. Non dobbiamo fare diagnosi o assistenza, ma è umanamente importante guardarci le spalle a vicenda.

Secondo alcune associazioni che se ne occupano, quando conosciamo qualcuno che vive una situazione a rischio suicidario, possiamo usare il WAIT!:

  • W-atch out for a sign: stare attenti ai segnali, a gesti e comportamenti diversi dal solito;

  • A-sk: parlare con la persona in questione, e chiedere di cosa ha bisogno: a volte basta anche essere lì col supporto materiale (preparare dei pasti, fare delle commissioni al posto suo);

  • I-t will pass: accogliere le difficoltà emotive e la disperazione, ma anche razionalizzare sul fatto che le cose cambiano col tempo e che si possono trovare, insieme ad altri, delle soluzioni;

  • T-alk with others: incoraggiare la persona a parlare il più possibile di quanto sta vivendo, anche con un professionista della salute mentale.

In un momento intenso di crisi
In Italia si può chiamare il 112 o il Telefono Amico (attivo tutti i giorni dalle 10 alle 24) al numero 02 2327 2328 o sul sito www.telefonoamico.it, dove si può attivare una webcall gratuita.

ALESSIA GRAMAI

Writer
Psicologa, (quasi) sessuologa, sarda, femminista.
Polemica, a volte; troppo concentrata su cosa succede nel mondo, spesso; piena di dubbi, sempre.